Articoli su Giovanni Papini

1938


Walter Binni

in: STORIA DELLA CULTURA,
Giovanni Papini, Storia della letteratura italiana. I.

Pubblicato in: La Nuova Italia, anno IX, fasc. 2, pp. 59-60.
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Data: febbraio 1938



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   Ciò che conoscevamo del Papini critico non ci ha permesso di nutrire illusioni sul valore di questa "Storia della letteratura" che viene con grande vociferazione per sistemare finalmente le cose in una "delle piú ricche provincie dell’impero spirituale italiano". Questo "lasciate fare a me" iniziale si convalida con tre promesse di novità di fronte alle altre storie letterarie, e cioè in quanto vuol essere "la prima storia della letteratura italiana scritta da uno dei padroni di casa, sia pure l’ultimo dei condomini", in quanto accoglie solo gli scrittori "di prima e di seconda grandezza" (esattamente sessanta), in quanto è, invece che erudita o estetica, «educativa, cioè morale, civile, pragmatica». Una quarta, sottintesa, ragione di novità consiste nel fatto che per la prima volta la letteratura italiana ha trovato un interprete cattolico.
   Quanto alla prima novità va notato che il Papini il diritto di "condomino" se lo piglia da sé e con lo stesso arbitrio ne esclude gli altri storici della letteratura, servendosi per il De Sanctis di quella somma autorità critica che fu il Gabriele D’Annunzio della prefazione alla Beata riva di Angelo Conti.
   Ed è buffo che si avvalori per questa sua idea che la storia letteraria debba essere fatta non da storici, dai non critici (come se un critico dicesse: finora l’arte l’hanno fatta solo gli artisti, gente che non aveva un chiaro concetto dell’arte; è giusto che la faccia io che so teoricamente che cosa è l’arte) con la sentenza del Vico e del Sarpi «che si conoscono perfettamente solo quelle cose che si sappiano fare», cosí che semmai questa sentenza tanto malamente applicata obbligherebbe Dante a far la storia della «Divina Commedia», Petrarca quella del «Canzoniere», e Papini a far solo quella di «Un uomo finito» o di «Buffonate».
   La seconda novità è ispirata da una pretenziosa e inopportuna difesa della poesia di fronte alla letteratura: se si vuol fare guardare solo alla poesia non si fa storia letteraria; o si arriva alla monografia o si giustifica una storia della letteratura cioè delle poetiche e delle tendenze culturali su cui sboccia l’effettiva poesia. Né tanto intransigente amore per la poesia ci inganni perché il Papini ama in realtà solo il contenuto poetico, psicologicamente descrivibile, ed ha tanto poco il senso della forma da rimproverare al Boccaccio la sua qualità di narratore: «Dante, Petrarca erano epici e lirici, cioè soprattutto poeti, il Boccaccio è favolatore e romanzatore grande, ma rimatore mediocre. S’ha un bel dire che fu anche lui, a suo modo, nella sua prosa un poeta: chi narra può essere artista eccellente, ma non può chiamarsi poeta se poesia è davvero, come sempre si pensò, il fuoco piú alto dell’anima che diventa luce nel canto» (376). E che il Papini abbia uno scarsissimo senso della poesia ce lo conferma la terza ragione di novità: quella della storia "educativa".
   Dopo un accurato riepilogo di quella che fu la lotta fra critica storica e critica estetica, lumeggiata da un linguaggio altamente critico «Fra lo spidocchiamento dei mangiapolvere e l’anfanamento dei problemaniaci non scelgo» (22), il Papini si augura dalla propria opera tre frutti: educare alle piú alte virtú, far meglio amare l’Italia, addestrare alla pratica effettiva dell’arte. Il terzo frutto è quello che ci pare piú azzardato sperare se la prosa che abbiamo davanti deve essere il bello stile che ammaestri i giovani all’esercizio dell’arte. Perché bisogna dire con serenità che il Papini scrive male. E non come D’Annunzio diceva del De Sanctis, ma proprio perché la sua è una forma logorroica, senza ritmo, scatenata a vuoto, incoerente e monotona, tutta fatta di periodi a contrasti e somiglianza, con un massimo semplicismo oratorio. Un buffo seguito di agitarsi, aprire braccia, fingere lotte e vittorie, e sempre come tessuto costante un dondolio sentenzioso di testa da oratore inesauribile. Lingua senza finezze, parole gocciolanti di melma, plebee, ma senza naturalezza, istrioniche, ma senza umorismo. «Bestemmioso, colleroso, posaiolo, gaiopinto mareggiare di fiori, consumante rattezza della fantasia, gigantificare, testicoleria» (detto di alcuni giudizi del De Sanctis di cui pure si dice con felice arguzia "lo schiavo pensatore") non sono che casuali incontri, limitati al vocabolario, con questo imperante malgusto.
   A lettura finita non possiamo ricordarci se non di ritratti psicologici, il solito Dante superuomo, un Petrarca dongiovannesco e femineo, un Boccaccio anarchico e mangiapreti. A volte queste vite romanzate (additiamo come eccellente in questo genere un altro accademico che usa far rivivere nelle sue "False e vere" i personaggi piú illustri della storia e dell’arte) raggiungono il loro piccolo effetto, specie nel caso di personalità mediocri, facilmente investigabili, come il Compagni, ma per lo piú si risolvono in una vera denigrazione dei nostri grandi. I genitali, feticci di un superficiale freudismo, vi hanno un gran posto e d’altra parte vi circola un’aria prelatizia e sentenziosa. «È un’altra riprova – destinata a chi misconosce i santi – che essa non fu mai sola (Caterina) e che Qualcuno a lei smisuratamente superiore l’aiutò», dice di Caterina da Siena che occupa un posto nella storia della letteratura italiana malgrado la sua scarsa cultura. Tono moralistico di cui non possiamo non dare almeno questo saggio gustoso: «I primi responsabili furono i genitori. Cecco fu pessimo figliolo e giunse a confessare, per sfogo o per vanto, pensieri di parricidio e di matricidio. Non possiamo assolverlo, ma neppure possiamo perdonare a coloro che seppero ispirargli quell’odio. Quando un figliolo non ama i genitori e a loro si rivolta e ne desidera la morte la colpa non è mai soltanto del figliolo. Bisogna vedere come l’hanno trattato e di qual tinta sono loro stessi... Infelici i genitori ai quali nacque un tal figliolo; infelice il figliolo in mano a simili genitori» (96, 98).
   E tali indagini biografiche portano ad alcune conclusioni davvero bizzarre sulla natura dei nostri grandi. Per esempio, del Petrarca si dice che è una «natura acquatile». Perché? «Duttile e trasmutabile, il Petrarca potrebbe dirsi di natura acquatile piuttosto che aerea o terrosa». (Molti anni fa il Petrarca era il miele e Dante la Pietra. V. Maschilità. Le due tradizioni letterarie. Ora il miele si è sciolto in acqua). «Ci sono nature come Dante che fanno pensare al ferro e al macigno, altre come Santa Caterina tutto ardore e fiamma di fuoco. Il Petrarca, invece, ci richiama piuttosto all’acqua, all’acqua che prende tutte le forme e rispecchia tutte le immagini, all’acqua che si tinge di ogni colore – lago azzurro, stagno verde, fiume giallo, palude bigia, mare purpureo –, all’acqua che ha tutte le voci: muggito dell’oceano,


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rombo delle cascate, sussurro di ruscello, chioccolio di sorgente». E dopo tale volata lirica, questo umoristico svolgimento: «La sua vita stessa è legata all’acqua: ancor fanciullino corre il pericolo d’annegare nell’Arno quando, sulle spalle d’un garzone, lo portavano all’Incisa; da ragazzo poco mancò non naufragasse presso Genova; un’altra volta, venendo dalla Provenza in Italia "del mar Tirreno a la sinistra riva" cadde in un ruscello, non già come persona viva. E non dimentichiamo che per molti anni, a Valchiusa e a Selvapiana, trascorse la vita presso sorgenti e fiumi; e che una delle piú perfette liriche sue fu ispirata dalle "chiare, fresche dolci acque"... In nessun altro poeta, io credo, si può incontrare una quartina tutta composta di nomi di fiumi...» e cosí via per due pagine (268-269).
   È di queste trovare che si ingemma la storia letteraria del Papini: e badate che non se ne lascia sfuggire nessuna. Chi avrebbe tratto profitto dal caso per cui Dante si chiamò Alighieri, che sua madre si chiamò Bella, e il suo primo antenato Adamo? E invece il Papini può iniziarci cosí alla comprensione dell’anima dantesca: «Il suo piú antico antenato conosciuto, il padre di Cacciaguida, si chiamò Adamo, ed egli impersonò mirabilmente, nell’opera maggiore, il genere umano. Sua madre si chiamava Bella, ed egli fu sempre, dalla puerizia alla cima del paradiso, amatore e creatore di bellezza. Il cognome della famiglia derivava, probabilmente, dal latino aliger, ed egli seppe volare, coll’ali della poesia, fino al seno luminoso d’Iddio. Lo chiamarono nel battesimo Durante, che esprime idea di costanza, ed egli fu ostinato nei suoi primi ed alti amori e giustamente sperò che il suo nome dovesse nei secoli durare» (128).
   E della poesia? O si ferma a considerazioni marginali come quando, parlando della lingua della Divina Commedia, è colpito dalla presenza degli otto versi provenzali e di quelli latini («La commedia si potrebbe perfino chiamare, chi volesse spingere all’assurdo la dantesca predilezione del tre, un poema trilingue. Difatti, oltre il volgare italico, ci sono gli otto versi provenzali di Arnaldo Daniello e qua e là parecchi versi latini... Non sazio di tante prede nostrali e forestiere Dante volle provarsi – per ragioni d’arte – a fabbricare un linguaggio tutto nuovo e a nullo noto, e pose in bocca a Pluto e a Nembrotte due misteriosi versi...)» (223) (quasi un esperantista alla Gog) o fa l’estatico, il critico dell’ineffabile: «Mi do per vinto. Il divino segreto della poesia petrarchesca sta in quelle poche sillabe che ricostruiscono nella sensibil fantasia tutto un mondo spirituale» (299).
   Da parte di molti recensori si va dicendo che questa "Storia", storicamente inutile, vale però come creazione papiniana: bisognerebbe avere il coraggio di guardare dentro questo papinianesimo e giudicarlo secondo il suo effettivo valore. Bisognerebbe dire con chiarezza, senza astio e senza amore, che questa "Storia" non ci prospetta nessun problema e non arricchisce la nostra sensibilità, non ci fornisce né un punto di vista originale né una pagina d’arte.


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